Europa e Giappone condannate alla stagnazione per il sostegno al dollaro?
Il dollaro è fondamentale per la tenuta del sistema americano, ma ha bisogno un livello di tassi d’interesse che il sistema ora non può pagare. L’Oro è destinato a proseguire il rialzo e va inserito in portafoglio.
di Maurizio Novelli, gestore del fondo Lemanik Global Strategy
La narrazione di consenso che sostiene lo scenario di un soft landing globale nasconde in realtà l’esigenza di “sopprimere il ciclo dell’economia” e fare in modo che le fasi di recessione non vengano più rilevate nei dati statistici. Molti dati macro pubblicati negli ultimi anni confermano questa ipotesi e aumentano i dubbi sulla reale situazione dell’economia internazionale. Dal 2020 è aumentata la frequenza delle revisioni di calcolo del Pil, in particolare negli Stati Uniti, e si sono accentuate le manomissioni dei dati con l’applicazione di esasperati aggiustamenti di “destagionalizzazione“.
Nonostante alcune economie siano in evidente crisi strutturale (Germania, Regno Unito e Cina), i dati di calcolo del Pil dell’economia non hanno mai rilevato cedimenti importanti e le variazioni negative oscillano nell’ordine dello 0,1% – 0,2%. La crisi della Germania, platealmente evidenziata dai Ceo tedeschi e molto documentata nei dettagli, non si rileva nella pubblicazione del Pil, che stando alle statistiche ufficiali si contrae solo di 0,2%. L’economia della Gran Bretagna non ha subito apparentemente alcun danno significativo dall’aumento dei tassi, dalla crisi dei fondi pensione, dalla Brexit e dalla delocalizzazione finanziaria. Sulla Cina non c’è molto da aggiungere a quello che già si sapeva da tempo, mentre sugli Stati Uniti si può solo constatare che il “boom economico” non sembra essere percepito dalla popolazione americana. È la prima volta infatti che un’amministrazione con risultati economici “fantastici” perde le elezioni. Anche la riduzione dei tassi da parte della Fed lascia molto perplessi, dato che, secondo i dati ufficiali, non avrebbe dovuto essere fatta.
Negli ultimi mesi, grazie alle riserve bancarie in eccesso (3,5 Trilioni vs una media di 1,5 Trilioni degli ultimi dieci anni), le grandi banche Usa hanno acquistato titoli del debito pubblico per un importo di quasi 500 miliardi di dollari, mentre il QT (Quantitative Tightening) della Fed si è praticamente fermato. In sostanza sembra che sia ripartito un Quantitative Easing attraverso il sistema bancario, supportato dalla liquidità fornita dalla Fed alle banche. Questo tipo di supporto straordinario di liquidità, attraverso canali non visibili al grande pubblico, conferma quindi una fragilità di fondo di un sistema che pubblica dati macro apparentemente solidi, ma continua a richiedere un supporto monetario e fiscale. Mentre la percezione degli operatori finanziari è accecata dall’andamento dell’indice SPX, non sorprende che la percezione degli operatori economici e dei consumatori sia diametralmente opposta e che Trump, che evidenzia una richiesta di cambiamento, abbia vinto le elezioni. Lo scenario che si delinea all’orizzonte è quindi piuttosto chiaro: è necessario sopprimere il ciclo dell’economia e perseguire ad oltranza politiche fiscali e monetarie espansive di tamponamento.
Ma tali politiche non sono più in grado di produrre crescita reale, salvo con la manipolazione dei dati, poiché il moltiplicatore fiscale e monetario è ormai compromesso da due fattori: 1) il colossale stock di credito speculativo insolvente in circolazione che assorbe in modo improduttivo la liquidità che viene immessa dalla banca centrale e 2) il debito pubblico improduttivo che serve ad erogare sussidi a chi non regge questo modello di sviluppo (il 40% della spesa pubblica Usa per il 25% della popolazione americana). Pertanto, il sistema capitalistico è ormai chiuso in una trappola strutturale creata da 14 anni di QE che hanno favorito l’allocazione del capitale ad attività improduttive o a basso ritorno sugli investimenti e alla creazione di monopoli tecnologici. Questo è il principale problema per il quale il sistema è in crisi e gli strumenti per uscire dalla crisi (fiscali e monetari) non sono più così efficaci.
La crescita del debito non può però reggere tassi d’interesse elevati su tale debito e richiede quindi un ritorno al QE per controllare i tassi ma contestualmente politiche monetarie mirate a produrre inflazione. Questo è il principale motivo per il quale la monetizzazione del debito sarà implementata in modo strisciante negli Stati Uniti e in molti paesi occidentali, utilizzando il sistema bancario come principale sottoscrittore nelle aste dei titoli del tesoro. L’inflazione sembra la soluzione apparentemente meno dolorosa ma comunque destabilizzante: sebbene anche i dati sull’inflazione possono essere politicizzati, la percezione dell’opinione pubblica si sta certamente rivelando meno incline a credere a quello che Wall Street vuole farle credere. Il rischio di una crisi di credibilità delle istituzioni e dei Policy Makers non può essere quindi esclusa.
In questo contesto, dove apparenza e realtà sono ormai in evidente contrasto, l’Oro è destinato a proseguire il rialzo e a posizionarsi come una asset class che in qualche modo dovrà essere presente nel portafoglio degli investitori, anche se al momento non sembra che il consenso abbia compreso il reale motivo del suo rialzo, che non è legato solo all’inflazione ma soprattutto al futuro ruolo del dollaro, alla monetizzazione del debito come soluzione di tamponamento e alla tenuta dell’architettura finanziaria basata sul Dollar Standard. Per quanto riguarda i bonds sarà abbastanza difficile per le Banche Centrali controllare la curva nella parte lunga delle scadenze, anche se i tentativi attualmente in corso verranno intensificati. Credo che una posizione remunerativa potrebbe essere quella di implementare una posizione long 10y Bund e short 10y US Treasury, dato che i titoli del tesoro degli Stati Uniti sono molto più esposti a politiche reflazionistiche.
Il dollaro rimane un tassello fondamentale per la tenuta del sistema americano, ma per reggere ha bisogno un livello di tassi d’interesse che il sistema non può pagare. Mentre Europa e Giappone stanno cercando di mantenere l’architettura finanziaria del Dollar Standard a loro spese, una buona parte delle economie emergenti (e non solo la Russia) stanno ridimensionando il loro finanziamento al debito americano. Questo calo dei flussi verso il dollaro, di solito supportati dagli avanzi commerciali dei paesi emergenti che tendono a riciclare il surplus verso i Treasuries, deve quindi essere compensato sempre di più da Europa e Giappone. Quindi Europa e Giappone devono risparmiare di più per creare un maggiore surplus finanziario da canalizzare verso il sistema americano, che deve però continuare a fare debito per sostenere l’economia. La minaccia di dazi Usa sull’Europa accentuerà la delocalizzazione produttiva in America e non farà che accentuare la deindustrializzazione Ue. Il risultato di questo meccanismo è la condanna alla stagnazione per Europa e Giappone, che per motivi geopolitici sono obbligati a sottostare alle esigenze americane per sostenere il dollaro.
La Cina, nonostante i problemi, sta invece aumentando l’interscambio commerciale con le economie emergenti e cerca di sottrarsi lentamente al legame economico e finanziario con gli Stati Uniti, indirizzando più risorse in Asia e meno sui Treasuries. Il Giappone ha avuto una coesione sociale che gli ha permesso di reggere vent’anni di stagnazione economica, l’Europa non l’ha mai avuta e non ce l’ha tuttora. Il “ventre molle” del modello economico che sostiene il Dollar Standard è quindi l’Europa, che non reggerebbe uno scenario giapponese. Le politiche fiscali e monetarie possono ritardare gli eventi ma la loro efficacia si riduce progressivamente per i motivi di cui abbiamo parlato prima. L’intera impalcatura su cui oggi è appoggiato il sistema finanziario americano sarà sottoposta ad uno spiacevole e significativo reset, che potrà avvenire da eventi top down (scoppio delle bolle finanziarie) o da eventi bottom up (instabilità sociale). Il problema è che tali eventi oggi sono tra loro interconnessi, e uno non esclude l’altro.